Quando noi italiani beviamo un caffè, pensiamo a quanta italianità c’è in quella tazzina. Non è che lo dimentichiamo, ma semplicemente soppesiamo pochissimo la provenienza di quel caffè. Vero è che, così come le caramelle alla liquirizia più buone mi dicono essere quelle danesi, la liquirizia migliore viene se non erro, coltivata in Italia.
E come per la liquirizia potremmo parlare di ennemila altri prodotti che vengono coltivati in un posto e resi meravigliosi in altri luoghi. La storia la fa la terra e il contadino e questo dovremmo scrivercelo sopra il frigorifero per leggerlo tutte le volte che lo apriamo, ma è anche vero che la grande storia di selezione e lavorazione ha preso, direi da più di un secolo, altre meravigliose (certamente e purtroppo non tutte, ma la debolezza umana è nota a tutti) strade che penso si debbano conoscere e apprezzare.
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Ma come si misura l’ecosostenibilità?
Quando trovo ostico qualcosa, tento sempre di ridurre ai minimi termini, per semplificare e provare a capire meglio. Esattamente come quando avevo sei anni, applico il metodo della mia temibile e terribile Maestra Borgo, che mi considerava zero, ma spiegava un gran bene. Ovvio quindi che studiassi poco, perché riuscivo comunque a cavarmela, semplicemente ascoltandola dagli ultimi banchi.
Fortunatamente le parole “ecosostenibile” e “impatto ambientale” sono sempre più consuete nelle nostre conversazioni e ancor di più dopo l’esperienza di Expo Milano 2015, e nel mio caso ancor di più, avendo seguito anche lo sviluppo di Expo World Recipes, che riportava l’impatto di ogni ricetta solo analizzando gli ingredienti e non altri parametri, quali gli strumenti, la stagionalità etc. Insomma un bello sforzo per far comprendere questi dati a chi cucina e chi mangia. Però non basta, me ne rendo conto.
Ho anche un grande vantaggio: sono cresciuta con un padre ossessionato dal risparmio economico, quindi ogni azione o spesa era super misurata: dallo spegnimento delle luci e delle spie della televisione, al fai da te più estremo come l’imbiancatura, la carta da parati, la riparazione di un miliardo di cose domestiche e personali come le scarpe e i lavandini. Certo, ho passato molti pomeriggi a ridare la vernice alle ringhiere, ad aggiungere vino all’aceto in cantina, a usare come carta di brutta i retro dei ciclostili, o a passare gli strumenti a mio padre, annoiandomi a morte e sognando i giardinetti.
Se vi state chiedendo se mio padre era un artigiano, vi dico subito di no: era un impiegato in IBM.. Continua a leggere
Storie d’acqua e di ragazzi
Mi occupo di social network da qualche anno e sono convinta che possano rendere più
facile la vita senza nulla togliere alle esperienze reali. Quando riguardo la mia bacheca
instagram degli ultimi dodici mesi ritrovo velocemente i momenti che ho condiviso con
gli amici di sempre, con la famiglia e con i miei follower dall’altro capo del mondo. Non vi
voglio convincere, si può sopravvivere anche senza, come dico agli amici più diffidenti, ma
quando trovo persone che invece s’incuriosiscono e mi chiedono aiuto per muovere i primi
passi, non mi tiro mai indietro… Continua a leggere