Ci sono volte che vorrei raccontare nell’immediato le esperienze che vivo e ciò che imparo dalle stesse, ma posso dire che grazie ai social network, questo avviene abitualmente.
Ci sono altre volte che non ci riesco e solo ad un certo punto capisco che non è soltanto una questione di attitudine/talento nella procrastinazione.
Capisco soltanto quando inizio a scriverne, che è perché mi mancavano dei pezzi, a cui un po’ per caso un po’ per intenzione, arrivo soltanto successivamente.
Spesso mi capita di dire che in tema di ecologia, in quarant’anni (tanti ne sono passati dalle mie scuole elementari a fine anni settanta, quel “beato” momento storico in cui condivo con l’olio di semi vari l’insalata e bevevo latte francese, parzialmente scremato e a lunga conservazione) abbiamo fatto dei passi avanti, rispetto a quello che ci colpiva in quel periodo: la plastica, la plastica e poi solo la plastica. Il “beato” momento in cui, se non potevamo prendere la macchina, non era per questioni di livelli d’inquinamento cittadino, ma per problemi d’embargo sulla benzina.
Certo che ne abbiamo fatti di passi, ma mi chiedo, quanto riusciamo a comprendere le conseguenze di ogni nostro comportamento o acquisto, oggi?
E ancor di più, riusciamo a quantificare, anche solo minimamente, quando quell’acquisto riguarda il cibo che mangiamo? Intendo quindi, anche da un punto di vista di produzione, di trasporto e di smaltimento. Perché è questo l’importante passo avanti che abbiamo fatto, sapere che tutto è collegato. Senza dimenticare che il primo passo, usciti dalle guerre dello scorso secolo, è stato prima la nutrizione, intesa come uscire dalla fame, dalle ristrettezze e poi la salute (torniamo quindi alla “leggerezza” dell’olio di semi, ma avremmo altri mille esempi).
Oggi c’è chi non mangia proteine animali, e poi compra quinoa coltivata dall’altra parte del mondo, c’è chi è super attento alla raccolta differenziata, e poi non riesce a mangiare le verdure. C’è chi non vuole l’olio di palma, ma poi della stessa pianta vuole lo zucchero di cocco, c’è chi è andato in bici per trent’anni e poi in dodici mesi fa 29.000 chilometri in macchina (l’ultima sono io, sì).
In un momento in cui gli stili alimentari sembrano dei movimenti politici, ognuno fa la propria scelta. Ma non c’è scelta vera se non c’è informazione, e nonostante questo dobbiamo comunque vedercela con i condizionamenti di vario tipo, ripetendo a me stessa che sono la prima a condizionare le scelte delle persone che mi circondano, in primis i miei figli, che devono vedersela con altri mille altri fattori.
Tutto questo potrebbe sembrarci paradossale, confuso e a volte inutile, invece no:
Il progresso in questi ultimi decenni ha portato valanghe d’informazioni, e anche tanta informazione discutibile, è vero, ma ci ha condotto a molte riflessioni e costretto a sentire un’urgenza globale che forse anche solo vent’anni fa sarebbe stata impossibile.
È solo per dire che ognuno di noi fa una scelta personale e libera, tenendo conto dei condizionamenti che li portano ad essere più sensibili verso certe problematiche e altre no. Ma anche per dire che dobbiamo sensibilizzare, motivare con più coscienza possibile e ancor più rispettare la scelta di ognuno, informandoci (verificando le fonti, appunto, sì anche quando condividiamo su FB).
E siccome le aziende sono fatte di persone, le stesse optano su direzioni e fanno delle scelte, cercando di seguire quelle dei loro clienti e facendo qualcosa in più, ovvero la ricerca e la continua formazione/informazione. Eh sì, magari questa si rivelerà l’azione migliore anche a livello commerciale, per una questione di strategia a lungo termine.
C’è una cosa che ai nostri giorni resta praticamente un valore assoluto: viaggiare.
Sia per lavoro che per diletto. (sì, ho scritto “diletto”, non ho trovato un aggettivo migliore). Viaggiare è diventato un bisogno e non è contemplata la possibilità di ridurlo per la nostra società e per quelle emergenti con sempre più potere d’acquisto.
Scrivo questo anche per tornare a bomba, che altrimenti mi perdo: se ho dato questo titolo è perché sono stata invitata a New York da Autogrill all’evento dedicato al futuro delle tecnologie, della mobilità e del food: “The New Yorker TechFest“.
Ho avuto l’opportunità di ascoltare persone incredibili, che riescono ad essere quel “passo” avanti necessario per collegare il tutto in modo circolare:
Ve ne dico solo alcuni: Siddhartha Mukherjee, che guarda alla scienza medica con uno sguardo illuminato che ci sembra viva nel futuro e invece no, è perfettamente inserito nel presente. Jaron Lanier autori di libri fondamentali come “Tu non sei un gadget”, un uomo capace di prevedere le problematiche di un futuro che adesso già viviamo, tipo appunto, che l’enorme capacità quantitativa d’informazione sul web, non sarebbe voluto dire aumento di qualità della stessa. (vedi sopra qualche riga, a proposito di fake news).
“The future of food” con la partecipazione di Dan Barber (chef), Susan Ungaro, presidente della James Beard Foundation, Gianmario Tondato Da Ruos Amministratore delegato del Gruppo Autogrill e Steve Johnson, presidente e amministratore delegato di HSMHost è il panel dove si è cercato di capire come cambiano le tendenze. Qui trovate il Video che ho fatto live su Facebook.
Si è parlato di nuova consapevolezza e di nuove (neanche troppo) richieste e, se una volta il concetto di salute nell’alimentazione era necessariamente legato a quello delle calorie, oggi la tendenza è molto cambiata: salute significa freschezza, tracciabilità e conoscenza della catena di produzione alimentare, colture bio e ovviamente anche possibilità di riciclo.
Anche negli Stati Uniti negli ultimi due o tre anni un’altissima percentuale di americani ha cambiato la propria alimentazione in favore dei cibi sani. Cibi gustosi e “giusti”, con la possibilità di nutrirsi correttamente anche tra un aereo e l’altro, cambiando radicalmente le prospettive di un’offerta.
Fast/healthy casual/fast fine/casual (mangiare veloce e sano viaggiando, affidandosi a proposte magari di grandi chef o grandi ristoranti realizzate appositamente).
E poi customizzazione del cibo, il cambiamento che avverrà nel modo in cui la gente mangia, anche in viaggio. È un concetto coast to coast, ovunque ci si trovi, in qualsiasi città, si avrà il modo di inserire i dati in un sistema per sapere esattamente quali sono i cinque o sei posti dove si trovano gli alimenti che si è scelto di mangiare, prodotti e preparati come si desidera e in linea con il proprio stile alimentare e di vita.
Un’ottima dimostrazione è il successo di Bistrot, sviluppato in Italia e che offre il 60% dei prodotti che sono stati riscoperti e valorizzati come il pane, mentre il restante 40% proviene da una selezionata catena slowfood a basso chilometraggio, anche in Danimarca per citare un paese, e nei luoghi dove il marchio è e sarà presente con le nuove aperture.
Studiare il processo di produzione del pane, per ricreare una catena più naturale, partendo proprio dalle fonti. (ndr ero presente all’apertura di Bistrot in Stazione Centrale a Milano e ho toccato con mano la loro pasta madre)
Si devono poi fare i conti anche con la reale sostenibilità dei ristoranti in aeroporti o in autostrada, ma si sta lavorando appunto sulle soluzioni e Autogrill racconta quello che sta già facendo:
Utilizzare fonti alternative di energia tipo la raccolta di acqua piovana o il geotermico, mentre per il consumo d’acqua che all’80% è destinata all’uso dei servizi igienici, si è progettato un sistema altrettanto igienico e funzionante, ma senza acqua.
Ripensare ai rifiuti come ad una risorsa da recuperare, con i fondi del caffè, ad esempio, per costruire mobili, che magari diventerà interessante anche come business, su cui si sta lavorando.
Per quanto riguarda invece la supply chain, fornire cibi in 99 aeroporti degli stati uniti è stata per il gruppo, una sfida veramente altissima, ciò nonostante si è abbandonato il prodotto surgelato per passare al fresco, guadagnando molto sul gusto.
Un gran lavoro di ricerca sui prodotti locali, e l’aeroporto in qualche modo rappresenta la città dove ci si trova, e il gusto di Los Angeles si può sentire già nel suo aeroporto ora, con l’80 % dei prodotti che provengono da colture locali.
Esplorando prodotti innovativi e nuovi formati per migliorare la food experience dei viaggiatori, unendo sostenibilità, tradizione e innovazione nel futuro dell’alimentazione.
Ecco, questo è il comportamento di un gruppo di persone e di un’azienda. Non è l’unica, e mi sento di dire per fortuna, ma questo deve essere uno stimolo anche a livello individuale, per trovare la propria strada.
Non abbiamo ancora strumenti di misurazione del nostro personale impatto ambientale, purtroppo, e andiamo ancora a spanne a seconda della nostra sensibilità, della nostra cultura, cercando di fare il meglio per sentirci a posto la coscienza, ma è abbastanza?
p.s. L’altro giorno discutevo con un produttore di microalghe del fatto che gli alimenti cosiddetti del futuro, come insetti e appunto microalghe siano ancora solo argomento di conversazione e poco presenti nella nostra alimentazione come fonte alternativa e non assoluta delle proteine animali (ne parlavamo, pur essendo entrambi onnivori) e ho riflettuto sul fatto che oltre allo stile alimentare si debba davvero fare un passo in avanti o uno indietro, visto che nella storia del nostro pianeta erano e sono parte dell’alimentazione.
Cosa dovremmo aspettare? Quanta consapevolezza ancora ci manca in un’ottica di economia circolare e sostenibile per fare la scelta migliore?